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La
dama nello studio del pittore
1740-45
olio su tela, cm. 44x53
Venezia, Ca' Rezzonico
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Lo
studio del pittore, un ambiente disadorno salvo
che per la presenza di un contrabbasso accostato
alla parete, sembra ricevere luce dalla presenza
della dama con un vestito prezioso, chiaro e all'ultima
moda. Il pittore ritrae se stesso in controluce,
il suo profilo fa da contorno scuro all'incarnato
del ritratto femminile, questa vicinanza potrebbe
suggerire un rapporto amoroso con la dama o forse
con la sua arte. |
L'accompagnatore
della dama, che si è appena scostato la bautta,
la tipica maschera veneziana, ha un volto enigmatico,
una nuova maschera per coprire o la noia o il disagio
della situazione. Più che seguire il lavoro
dell'artista sembra preso dai suoi pensieri. Il pittore
indossa una palandrana verde ed è seduto su
un ampio cuscino rosso che ricopre un massiccio sgabello
in legno. Vi è un'atmosfera fredda, di attesa.
Si tratta di un soggetto largamente diffuso nel settecento,
di cui furono maestri gli olandesi: "il quadro
nel quadro". Si conoscono almeno quattro repliche
di questo lavoro fatte dal pittore. Ma per intendere
la novità portata da Longhi il confronto più
interessante è con l'Apelle e Campaspe
di Giambattista Tiepolo, un dipinto autobiografico:
in Apelle, il mitico pittore dell'antichità,
Giambattista ritrae se stesso, in Campaspe - la cortigiana
di Alessandro Magno di cui Apelle si invaghisce -
ritrae Cecilia, sposata con rito segreto nel 1719,
sorella dei pittori Francesco e Antonio Guardi. Nel
dipinto Tiepolo si autocelebra come Apelle, in un
momento di grande successo, e immagina il proprio
studio come un luogo antico, mescola passato e presente,
si colloca in un improbabile Olimpo dove mette in
scena il mito dell'arte. Longhi, al contrario, propone
la magia del quotidiano e del contemporaneo. Il suo
linguaggio moderno ha definitivamente fatto a meno
di miti e dei, eroi e condottieri, per rivelare invece
le regole che sembrano governare i comportamenti degli
uomini. Propone un linguaggio sostanzialmente diverso
rispetto a quello idealizzato del Rococò, ormai
giunto agli estremi. E' un linguaggio spregiudicato
e nuovo che aderisce intimamente alla realtà
rappresentata, al "vero". Anche lo strumento
linguistico e compositivo, usato dal Longhi, ha un
taglio moderno. Il punto di vista è il più
vicino possibile, in modo da dare quasi l'illusione
che sia l'osservatore a dipingere il ritratto. Un
altro aspetto della modernità del Longhi è
la centralità della donna nelle situazioni
che propone, con i suoi vestiti chiari, l'attenzione
dello spettatore non può che concentrarsi su
di lei. Anche in questo riflette la situazione degli
anni Quaranta a Venezia, per influenza della cultura
francese comincia a modificarsi il ruolo della donna,
la concezione che si ha dei suoi diritti e doveri.
Gode di una libertà che non ha paragoni in
altri centri italiani. Il quadro proviene dal Fondo
Correr, donato alla città di Venezia nel 1830.
Dal 1936 si trova a Ca' Rezzonico.
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Esposizioni:
Losanna, 1947; Venezia, 1975.
Bibliografia: Lazari
1859, p. 25; Elenco 1899, p. 77, n. 174; Ravà
1929, tav. 47; Lorenzetti 1936, p. 57; Pallucchini
1947, p. 54; Idem 1951-1952, p. 213; Moschini 1956,
p. 24; Valcanover 1956, p. 25; Pignatti 1960, p. 72;
Idem 1968, p. 100; Mucchi, Tolomei 1970, p. 40; Pignatti
1974, n.35; Idem 1975, n. 4; Mariuz 1975, p. 307;
Sohm 1982, fig. 2; Pignatti 1987, p. 69; Idem 1990,
p. 92; Romanelli, Longhi, Milano, Electa, 1993.
SETTECENTO
VENEZIANO E PALAZZO MENZ
Il
quadro, La dama nello studio del pittore, appartiene
ad uno dei momenti felici della carriera artistica
di Pietro Longhi, fa parte di quelle tele di piccole
dimensioni di soggetto quotidiano, con ambienti e
personaggi tratti dalla realtà veneziana di
tutti i giorni, prodotte intorno agli anni Quaranta,
recuperando il ricordo del giovanile contatto con
il bolognese Giuseppe Maria Crespi, ormai anziano,
che dopo trascorsi di grande decoratore si era dedicato
al genere popolare e al ritratto. Il Crespi costituisce,
in effetti, nella pittura del Longhi un importante
precedente, almeno per gli inizi nella sua prima produzione
di genere, tutta incentrata sul mondo rustico, collocabile
nei primi anni Trenta, dove compaiono figure isolate
di contadine e pastorelle in luce, contro l'ombra
dello sfondo. Le contadine lavano i panni, filano,
scodellano la polenta (La polenta, Venezia,
Ca' Rezzonico). Qualsiasi lavoro facciano lanciano
sguardi verso l'osservatore, come per conquistarne
l'ammirazione, per reclamare la nostra attenzione.
Verso gli anni Quaranta la pittura del Longhi entra
nelle stanze del patriziato veneziano, una novità
assoluta rispetto al melodramma del Rococò.
Già del 1741 sono capolavori Il concertino
e La lezione di ballo, opere che gli apriranno
i migliori salotti della città. Sono suoi committenti
i Segredo, i Grimani, i Michiel e i Pisani. Qui sta
anche la differenza con il Goldoni. Si ha però
l'impressione che i suoi contemporanei, pur lodandolo,
non lo avessero capito appieno. Forse lo interpretavano
come un amabile cronista delle oziose giornate della
decadente Venezia settecentesca, come fecero i viaggiatori
romantici dell'Ottocento, a cui piacevano una certa
sfumata galanteria, le maschere e le feste a palazzo
che si svolgevano nell'adorabile "città
morta". In effetti solo Roberto Longhi, nel suo
Viatico del 1946, lo colloca correttamente
entro la realtà culturale ricca di fermenti
illuministici della Venezia della seconda metà
del Settecento ed è di questa nuova situazione
culturale uno degli interpreti più originali.
Forse più dello stesso Goldoni, anche se, di
solito, si ritiene il contrario. Il Longhi ne precisa
le ascendenze più dirette "non soltanto
nel bolognese Crespi, ma soprattutto nella pittura
borghese e popolare bresciana e bergamasca che sulla
fine del Sei e sul principio del Settecento, era,
col Ghislandi e col Ceruti, la pittura più
seria e più sincera di tutta la repubblica
veneta" (Longhi, 1946).
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La donna è sempre il centro delle attenzioni
dell'artista, è al contempo artificio e natura,
vita di società e affetti domestici ma anche
capricci. Le sue opere della serie "Ischerzi
d'amore, di gelosie" come, ad esempio, la splendida
Lettera del Moro per Giovanni Grimani, ora
conservata a Ca' Rezzonico, ripropongono un'insistita
sensualità che ha un parallelo letterario nella
"Histoire de ma vie" di Giacomo Casanova.
La vena ritrattistica viene esaltata, nella produzione
longhiana, quando rappresenta gruppi di famiglia,
come ad esempio nella Famiglia patrizia di
Ca' Rezzonico (1752) oppure nella Famiglia Sagredo
della Querini Stampaglia. Alla serie dei ritratti
di famiglia si possono anche accostare Il Concertino
di famiglia del 1754-55 e La visita del frate,
1760. Entrambi questi dipinti costituiscono ottime
testimonianze della capacità di Pietro Longhi
di fissare sulla tela momenti di vita all'interno
dei palazzi patrizi.
Se gli aristocratici escono da palazzo è per
divertirsi, per partecipare al carnevale. Il carnevale
è il "tempo per eccellenza della Venezia
settecentesca, in cui l'intera città si fa
spettacolo, proponendosi tutta come teatro" (Zuffi).
I punti di sosta, all'interno della città,
sono i palchi dei ciarlatani, dei cavadenti, il teatro
dei burattini e i ridotti dove si gioca d'azzardo,
dove, protetta dalla maschera, la dama può
continuare la sua schermaglia amorosa. Opere in questo
senso sono Il Rinoceronte del 1751, Il Ciarlatano
del 1756 entrambe di Ca' Rezzonico, il Cavadenti,
1746, di Brera e Il Ridotto del 1760 della Querini
Stampaglia.
Un altro artista che si cimenta nella rappresentazione
della donna in bautta è Francesco Guardi. Già
nella sua produzione giovanile realizza due capolavori
del genere "vedute di interni": Il ridotto
e Il parlatorio delle monache di San Zaccaria,
databili al quinto decennio. Anche Francesco Guardi
risponde al desiderio illuministico di indagare la
realtà affrontando la quotidianità e
documentando in modo insuperabile i caratteri della
società settecentesca . E' stato anche un grandissimo
vedutista. Uno dei suoi capolavori è Gondola
sulla laguna (Milano, Poldi Pezzoli), un quadro
modernissimo che non rappresenta la Venezia storica
ma un punto qualsiasi della laguna, rendendone l'intima
malinconia con la contrapposizione di due fasce grigio
- azzurrine: quella più ampia rappresenta la
laguna e quella più chiara il cielo; sono separate
da una sottile striscia della riva colpita dal sole,
in primo piano una gondola scivola silenziosa sull'acqua.
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La
pittura veneziana visse, nel '700, un'ultima stagione
di straordinaria fioritura, soprattutto per merito
di Giambattista Tiepolo, forse il maggior pittore
del secolo in Italia. Durante la sua carriera ha un
crescendo di incarichi, in Italia e all'estero, dove
realizza, a Würzburg e a Madrid, aiutato dai
figli Giandomenico e Lorenzo, i più sfolgoranti
capolavori della pittura rococò europea. Venezia,
per merito di questi artisti, assume un ruolo di indiscutibile
prestigio in tutta Europa.
Esiste un segno prezioso di ciò anche a Bolzano:
la decorazione del salone di Palazzo Menz, eseguita
da Carl Henrici, nel 1776, in occasione delle nozze
di Georg Paul Menz con Clara Amorth. Sulle pareti
di Palazzo Menz viene rappresentata un'affollata festa
in maschera, di gusto rococò, ambientata in
giardino e suddivisa in tre momenti fondamentali:
la danza, la musica e il teatro. E' lo stesso giardino
dell'entroterra veneto, la stessa festa in maschera,
lo stesso momento gaio e spensierato del Minuetto,
un'interessantissima opera giovanile di Giandomenico
Tiepolo, che verrà ripresa nel Padiglione gotico
di villa Valmarana ai Nani. Giandomenico, con l'ironia
che gli è propria, si sintonizza sulla realtà,
sull'ambiente che lo circonda e, stimolato anche dalle
gustose descrizioni di vita quotidiana del Longhi
o dal vivace e moderno mondo goldoniano, mette in
scena la società del tempo. Vita quotidiana
e carnevale, maschere, gentiluomini, ciarlatani, vero
e finzione, realtà e capriccio, si fondono
così in una umanità che brucia nel gioco
effimero delle apparenze. Nel 1765 Giacomo Leonardis
fece un'incisione di questo soggetto, ora conservata
al Louvre, che probabilmente servì all'Henrici
che, se non vide l'originale, certo doveva avere presente
una riproduzione a stampa, largamente diffuse nel
corso del '700. Carl Henrici dimostra in questo gradevole
lavoro, ritenuto il suo capolavoro, di aver appreso
la lezione veneziana e la sua pittura può essere
intesa come un omaggio a una grande cultura figurativa
che si andava spegnendo.
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